L’abuso dei poteri di emergenza non è certo un fenomeno solo italiano. Poteri e procedure semplificate sono sempre esistiti in tutti gli ordinamenti giuridici, per far fronte a catastrofi naturali, eventi bellici e altre situazioni imprevedibili, ne quid res publica detrimenti caperet.
uesti poteri sono comodi: consentono di adottare misure immediate, evitando i tempi lunghi e le insidie del procedimento legislativo e dei controlli amministrativi. Ma, naturalmente, implicano la rinuncia alle garanzie di democrazia e di legalità, che sono alla base di quelle procedure e di quei controlli. E, soprattutto se usati frequentemente, possono implicare lo spostamento di competenze e la modificazione di fatto della forma di governo. Ne sanno qualcosa quei costituzionalisti statunitensi che criticano l’abuso, da parte di molti presidenti, dei poteri di emergenza per affrontare problemi duraturi e non imprevedibili1: dalla “guerra al terrore” alla “guerra al crimine”, dalla “guerra alla droga” alla “guerra alla povertà”, l’uso delle parole non è casuale, serve a giustificare l’uso di poteri eccezionali e il rafforzamento irreversibile del potere esecutivo.
I governi italiani non hanno certo nulla da imparare su questo piano. Hanno usato per decenni il decreto-legge, che la Costituzione prevede per situazioni eccezionali, come canale di ordinaria legislazione: negli ultimi anni, i decreti-legge sono quasi l’unico canale di legislazione. Non contenti, i vari governi utilizzano spesso un ulteriore strumento, ancora più libero da vincoli e controlli: quello dei provvedimenti amministrativi d’urgenza, per lo più ordinanze di protezione civile. L’esempio più pittoresco di questo abuso è dato forse dalla materia dei cani pericolosi, che non sono certo una catastrofe improvvisa: la materia è stata disciplinata dapprima da un’ordinanza del Ministro della salute del 2008, che prevedeva misure di buon senso ma era di dubbia legittimità, in quanto dettava una disciplina permanente; poi da una nuova ordinanza del 2009, questa volta emanata da un sottosegretario, che fa a pugni con il buon senso e la cui legittimità è ancora più dubbia (tra l’altro, prevede un regolamento di attuazione: il che, dal punto di vista della teoria delle fonti del diritto, è a dir poco stravagante). Tutto ciò con un tipo di atto che dovrebbe servire a gestire situazioni di emergenza2. Quando non ha voglia di emanare provvedimenti d’urgenza, poi, il governo nomina un commissario, per esempio per realizzare un’opera pubblica, al quale conferisce ampi poteri di deroga alle norme vigenti.
Se questi sono gli esempi che vengono dal governo nazionale, non può stupire che anche al livello locale si abusi degli strumenti che la legge mette a disposizione dei sindaci, che sono tra i pochi organi pubblici ai quali è consentito adottare provvedimenti d’urgenza. O, per lo meno, è inevitabile che qualcuno degli ottomila sindaci italiani ne abusi, dando prova se non altro di fantasia. Così, i sindaci usano questi poteri per disciplinare materie come l’uso degli spazi pubblici, l’abbigliamento dei cittadini e degli stranieri e le loro pratiche religiose, travalicando facilmente i limiti delle competenze comunali e del buon senso, comprimendo disinvoltamente i diritti costituzionali (come la libertà di riunione o di religione) e perfino sostituendosi alla legge penale (come quando viene proibita la cessione di stupefacenti…). Usano strumenti giuridici, che dovrebbero servire per tutelare la sicurezza dei cittadini a fronte di situazioni imprevedibili, per tutelare il buon costume, pretendere le buone maniere, modellare la società secondo le loro preferenze: di qui la pittoresca immagine dei “sindaci sceriffi”.
È su questa materia che è intervenuta la bella sentenza n. 115 del 2011 della Corte costituzionale, che ha censurato una norma del testo unico degli enti locali, inserita con il “pacchetto sicurezza” del 2008 per ampliare il potere dei sindaci di adottare ordinanze “contingibili e urgenti”. La sentenza, in effetti, si limita a espungere una singola parola dalla legge. La parola in questione non è “contingibili” (che pure meriterebbe di essere espunta, ma che ha una sua tradizione amministrativa), bensì “anche”.
Per come la disposizione era stata scritta (“il sindaco … adotta … provvedimenti, anche contingibili e urgenti”), infatti, essa conteneva due diverse norme, che la Corte ha identificato. La prima consente di emanare ordinanze contingibili e urgenti, cioè straordinarie, per far fronte a casi imprevedibili: questa norma non era rilevante nel caso all’esame della Corte, ed è rimasta. La seconda consentiva di emanare ordinanze “ordinarie”: questa norma è venuta meno con l’intervento della Corte, che ha cancellato la parola “anche”.
È bastato togliere una parola, dunque, per riportare la legge al rispetto della Costituzione. Ma l’aspetto più interessante è che, tra le varie strade che avrebbe potuto percorrere per censurare la legge impugnata, la Corte ha scelto quella basata sull’art. 23 della Costituzione, che contiene la più forte enunciazione del principio di legalità. In sostanza, la legge, attribuendo ai sindaci un potere “innominato”, in bianco, per far fronte a generiche esigenze di sicurezza, consentiva ai sindaci stessi di imporre ai cittadini obblighi che solo la legge può imporre.
È una decisione apprezzabile, che richiama al rispetto delle procedure normali e del riparto delle competenze tra organi pubblici. Ma è anche la dimostrazione che la giustizia costituzionale non è sufficiente a contenere le intemperanze dei politici sceriffi. Per togliere di mezzo una norma incostituzionale ci sono voluti: un sindaco che ha emanato un’ordinanza contro l’accattonaggio; un’associazione antirazzista che la ha impugnata; un tribunale amministrativo regionale capace di porre la questione alla Corte in termini corretti; e tre anni di tempo. Tutto per eliminare un “anche”, che purtroppo riguarda solo i sindaci, e non il governo nazionale o quelli regionali.
Bernardo Giorgio Mattarella
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