Peso le parole e spero di sbagliare. Abbiamo ormai pochissimo tempo per evitare all’Italia una catastrofe finanziaria e quindi di forte impoverimento. Un salto indietro di molti anni della sua storia. Non intendo polemizzare con nessuno. Dico solo che vedo anch’io i «dinosauri ».
Sono tutti coloro (politici, giornalisti, famosi economisti e conduttori televisivi) che non si rendono conto del perché siamo giunti a questa prova. Di che programmi si sta parlando? I programmi sono spot televisivi e non si misurano col problema che ha posto di recente Alberto Melloni, lo storico del Cristianesimo, il quale rivolgendosi alle gerarchie cattoliche le invitava a rendersi conto «che la svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce» e che quindi «lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India e come il bolscevismo in Russia. Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo».
Pensoanch’io che se non siamo proprio alla fine, è al tramonto di un ordine mondiale che stiamo assistendo: quello del neoliberismo. Il quale però non finirà da solo e non senza molti dolori, soprattutto per l’Italia che è nell’occhio del ciclone. E aggiungo che sta proprio qui la speranza, la grande speranza, che ripongo nelle nuove generazioni. Parlo del complesso e difficile mondo giovanile, non dei «narcisi» che occupano la scena televisiva. Parlo dei giovani non per compiacerli ma perché sono loro a pagare il prezzo più pesante a un sistema che – come ha scritto domenica Romano Prodi – provoca crescenti ingiustizie tra ricchi e poveri e sposta tutto il reddito verso il capitale e non verso il lavoro. Un sistema che impoverisce l’intera economia mondiale togliendo immense risorse al cammino produttivo dell’economia. Un sistema in cui i cervelli migliori vengono impiegati nelle banche d’affari per scommettere e non nelle imprese o nei laboratori. E così concludeva Romano Prodi: se queste risorse fossero dirette verso investimenti produttivi faremmo molto presto ad uscire dalla crisi. Eccolo secondo me in poche parole il cuore di un grande programma: canalizzare le risorse che esistono e sono grandi perché sono le risorse umane,le conoscenze, il capitale sociale verso l’investimento produttivo, cioè le cose vere e soprattutto i beni pubblici, la difesa del meraviglioso ambiente italiano e i nuovi bisogni umani. Ma come? Nel solo modo possibile, mettendo in campo non un uomo ma una forza reale. Uno strumento pubblico,una soggettività organizzata, una forza politica, capaci di combattere anche duramente.
Questa è la grande responsabilità che pesa su di noi. Ma qui staquindi spetta – io credo – porre come esigenza prioritaria diunprogramma di sviluppo, quella di come favorire il passaggio generazionale in tutti i settori compreso quello della politica. Il che significa che essenziale diventa lo scontro con quel grumo di rendite, di privilegi, di ostacoli alla mobilità sociale che stanno scaricando sulle nuove generazioni tutti i costi del sistema. Il punto centrale è che il sistema italiano non può tornare a competere con un’economia aperta dove ciò che decide è la produttività totale del sistema se non si rompe questa sorta di gabbia in cui sono intrappolate le risorse fondamentali del paese. Stiamo attenti quindi anon sbagliare. È del tutto fuori dalla realtà pensare a un ritorno al vecchio statalismo, così come sarebbe del tutto illusorio sfuggire alla necessità di politiche di rigore e di risanamento finanziario. La linea più realistica e soprattutto la sola che può costituire la base per una nuova alleanza tra le forze produttive è l’affrancamento dell’individuo dalle vecchie appartenenze e dei vecchi vincoli sociali. Ma le conseguenze possono essere molto diverse. Da un lato precarietà, insicurezza, esclusione sociale, aumento dei rischi della vita. Dall’altro latounaspinta potente a realizzarsi, a essere autonomi, ad affermare i nuovi diritti. Da un parte disgregazione sociale, egoismo, sfiducia nella democrazia, delega al Capo. Dall’altra parte riscoperta dell’impegno sociale, voglia di sapere, volontariato, impegno comunitario. Gli esiti di questo contrasto sono aperti.È chiaro allora che la nostra elaborazione politica e programmatica deve puntare alla creazione di un soggetto capace di guidare società come queste valorizzando tutta la potenzialità di progresso che ci resta. Nel mondo delle interdipendenze delle grandi reti non si può essere liberi da soli, senza gli altri o contro gli altri, ma soltanto in dialogo con gli altri. Perciò un programma vero non può essere fatto dai «rottamatori ». È l’ora dei ricostruttori.
Alfredo Reichlin