“Chi ritiene che in un mondo finito produzione e consumi possano crescere indefinitamente, o è un folle, o è un economista.”
Grande complessità, molteplici aspetti - e discipline - interessati, presenza di nuovi fattori che possono ribaltare le prospettive precedenti: questi forse gli aspetti salienti della crisi che sta colpendo il mondo da ormai 4 anni, senza prospettive di rapidi miglioramenti. Cerchiamo di dipanare alcuni fili di questa matassa, tanto intricata da dare motivo a repentini cambiamenti di posizione anche da parte di autorevoli opinionisti, persino premi Nobel per l’economia. Le due principali posizioni di pensiero contrappongono i rigoristi, o “moralisti”, che vogliono anzitutto garantire il pareggio dei bilanci, e coloro che invece, seguendo l’impostazione introdotta da Keynes, sostengono l’opportunità di andare anche in deficit, pur di mettere in atto politiche espansive che consentano di superare le difficoltà congiunturali. La principale differenza tra le due posizioni è forse la diversa valutazione dell’indebitamento o, più in generale, dell’intervento pubblico: da contenere per i primi, da non demonizzare per i secondi.
Il debito può svolgere una funzione preziosa quando si abbiano ragionevoli aspettative di realizzarne vantaggi futuri, o, in altri termini, di farne un buon investimento. Uno studente capace e meritevole, ad es. può opportunamente indebitarsi - se la famiglia non è in grado di mantenerlo agli studi - perché così potrà migliorare la propria vita. Dovrà anche scegliere correttamente l’orientamento negli studi; ma questa è una qualità della cultura. Nel commercio e nell’economia in generale il debito è la linfa che fa crescere la pianta. Più arduo è sostenere la validità dell’indebitamento per il consumo: difficile pensare a consumi che migliorino la vita futura. Qui non si può non menzionare il caso che ha innescato l’attuale crisi mondiale: i mutui ipotecari per l’acquisto della casa, sollecitati dalle banche americane in forte liquidità, a cittadini di basso reddito. Avendo successivamente perso lavoro e guadagni, questi si sono trovati nella necessità di recedere dal mutuo, lasciando la casa alle banche. La vendita simultanea di molte case ne ha fatto crollare il prezzo e le banche stesse sono arrivate all’orlo del fallimento. Un massiccio intervento finanziario da parte del governo le ha salvate, ma non è stato sufficiente a frenare l’espandersi della crisi a livello mondiale. Da notare che anche l’acquisizione di comportamenti virtuosi può essere un investimento: risparmiare sul fumo, ad es. migliora la qualità della vita anche per il futuro.
L’indebitamento pubblico può avere aspetti assai diversi da quello privato. Keynes ha dimostrato che in presenza di capacità produttiva inutilizzata (macchine ferme) è giustificata una spesa pubblica in deficit per stimolare i consumi (facendo lavori al limite inutili), riavviando così il ciclo produttivo. Questa posizione implica l’abbandono del laissez faire, della fiducia che il mercato possa risolvere da solo tutti i problemi nel modo ottimale; invece lo Stato deve assolvere un ruolo di governo e di guida anche nell’economia. È chiaro che su questa linea si possono avere abusi, corruzioni, scaricamento di problemi sulle generazioni future, ecc. ma secondo questa opinione i benefici derivanti da corretti interventi pubblici superano di molto gli inconvenienti. Tornando alla crisi attuale le posizioni rigoriste, inizialmente prevalenti, sembrano lasciare spazio a favore di interventi per la crescita. In ogni caso permane la confusione di dover fare contemporaneamente due cose tra loro difficilmente compatibili, se non contraddittorie.
Sostenibilità. A complicare ulteriormente il quadro vanno ricordati alcuni aspetti sui quali di solito si preferisce sorvolare. Già dai tempi delle crisi energetiche degli anni ’70 sono aumentati coloro che ritengono insostenibile l’attuale modello di sviluppo. Esso è basato sulla corsa indefinita tra produzione e consumi, alimentata dalla pubblicità e da altre forme sempre più perfezionate di convinzione dei consumatori e di creazione di bisogni. Ai consumatori vengono così imposte cose che non sono nel loro vero interesse, bensì dei produttori. Un esempio banale potrebbe essere l’esplosione delle malattie “del benessere” indotta anche dall’arricchimento commerciale della dieta (junk food). Oltre a queste distorsioni non si possono dimenticare le preoccupazioni per l’alterazione globale del clima e dell’ambiente, la desertificazione di numerosi territori, il permanere – e con la crisi l’estendersi – di povertà e sottonutrizione, infine l’accentuarsi, anche nei paesi ricchi, degli squilibri e delle differenze sociali – le quali, per inciso, sono da molti indicate tra le cause più profonde della crisi. Sono tutti effetti indesiderati del modello di sviluppo, che dovrebbe pertanto essere sottoposto a radicali cambiamenti. Sarebbe necessaria una sobrietà (scelta) piuttosto che una austerità (imposta). Ma la gente, abituata per decenni ad attese di crescente benessere, appare terribilmente restia ad ogni idea di sacrificio o decrescita. Lo si può verificare quotidianamente, oggi che si sono rese indispensabili certe forme di austerità.
Crescita immateriale. Se si fosse presa sul serio la sostenibilità dello sviluppo, maggiore spazio avrebbe avuto nel dibattito lo sviluppo umano. Ne ha parlato l’ONU ormai dal 1990, proponendolo come ampliamento delle opportunità e delle capacità a disposizione di ogni essere umano, accanto al parametro economico del PIL (prodotto interno lordo). Dà peso quindi ad aspetti immateriali che il PIL trascura, come la crescita delle capacità di ciascuno. Sembra questa l’alternativa da proporre alla insaziabile fame di crescita che è stata instillata nella nostra psiche: una crescita immateriale anziché materiale, basata cioè su migliori conoscenze, educazione, cultura, ambiente, arte e simili. Forse con la cultura non si campa, come hanno detto certi penosi politici italiani. Ma si diventa più uomini, si percepiscono meglio le finalità, si sa dove andare, si diventa meno facilmente pedine nelle mani di politici corrotti o di potentati economici. I beni immateriali, a differenza di quelli materiali, possono essere consumati indefinitamente senza inquinare; sono poi quelli più propriamente umani, in grado di appagare personalità mature, sviluppando anche il senso critico (ad es. verso demagogia o pubblicità). Con l’avanzare degli anni certi bisogni materiali, come il cibo, si riducono: diventa necessaria maggiore frugalità. Analogamente per la società la sobrietà potrebbe essere presentata come virtù della maturità, in un quadro di crescita immateriale. Consente una vita migliore anche per il futuro: quindi può essere considerata un vero e proprio investimento.
Quale spesa pubblica? Lo sviluppo umano e immateriale sembra l’unica via per conciliare le due posizioni divergenti del rigore e della crescita. La spesa pubblica potrebbe essere molto ridotta qualora la si sottoponesse ad un esame razionale: le enormi spese militari appaiono sempre più ingiustificate per un paese integrato nell’Europa, che da molti anni non subisce attacchi dall’esterno; la necessità delle grandi infrastrutture materiali è diventata secondaria dopo i grandi progressi nelle telecomunicazioni, e in ogni caso fattore poco rilevante per lo sviluppo di una società sempre più immateriale; la pubblica amministrazione segnala nel nostro paese una terribile inefficienza, attribuibile in prevalenza all’inadeguatezza della dirigenza, anche politica: è lo specchio dell’arretratezza culturale del paese. Ecco che quanto risparmiato in questi ambiti, oltre a ridurre il deficit, potrebbe permettere maggiore spesa in campo educativo, culturale, ambientale, della ricerca, ecc. Nei settori cioè che potrebbero consentire maggiore competitività alla nostra economia, e dai quali si dovrebbe partire per intaccare la rincorsa perversa tra produzione, pubblicità e consumi, cioè il modello di sviluppo insostenibile. In ogni caso educarci alla sobrietà è possibile da subito anche per ciascuno di noi ed è la via privilegiata per migliorare la qualità della vita, individuale e collettiva.
Luigi de Carlini