È noto che Benito Mussolini non amava affatto le città, quell’impeto di meccanica futurista vitale sì, ma che fatalmente finiva per provocare spirito critico, ribellione antigerarchica, insomma la terribile libertà di opinione e parola acerrima nemica di ogni regime. Con l’ovvia eccezione dei percorsi trionfali lungo i quali sfilare sulla ducesca auto, e far sfilare le scenografiche falangi, la metropoli brulicante faceva proprio schifo al fascismo, forse più ai buzzurri tirapiedi di terza fascia che ai capi veri e propri, ma erano i primi a far massa e cinghia di trasmissione. Alla nascente cultura degli architetti/urbanisti toccava adattarsi: da un lato progettoni urbani un po’ alla Albert Speer (il più famoso e realizzato è la via della Conciliazione di Piacentini, ma praticamente ogni città e cittadina ha un concorso con trionfali prospettive del genere); dall’altro la nascita della perentoria Urbanistica Rurale=Urbanistica Fascista.
Con questo slogan al primo congresso INU nel 1937 l’influente Vincenzo Civico costruisce la cornice entro la quale dovrebbe svilupparsi il concetto di pianificazione territoriale in Italia. L’obiettivo è quello, ancora stampato a chiare lettere all’art. 1 in una qualunque delle edizioni economiche della legge nazionale urbanistica in vigore, di “frenare la tendenza all’urbanesimo” attraverso una modernizzazione della vita rurale. Modernizzazione tecnica si intende, e del resto lo diceva pure Lenin che con l’elettrificazione si fanno miracoli politici. Dal punto di vista sociale invece modernizzazione proprio niente, almeno come la intendiamo noi: anche quella avrebbe avuto caratteri sospettosamente urbani e democratici. Poi finito il fascismo le politiche nazionali si indirizzarono verso urbanizzazione e industrializzazione, e di tutte queste cose si parlò molto meno, salvo qualche rigurgito di riflessione per casi di riforma agraria e dintorni. Roba da convegni iniziatici, comunque. Ma a modo suo il Duce l’aveva pensata giusta: la polarizzazione urbano-rurale in Italia era una ricetta vincente, almeno per l’immaginario, che è quello che conta quando si vive anche (a volte soprattutto) di promesse.
Almeno tre o quattro generazioni dopo, pare siamo rimasti al medesimo punto. La comunicazione con o senza fili o su quattro ruote, la diffusione delle culture popolari e dei consumi, l’estrema mobilità di singoli, famiglie, imprese, merci e servizi, fanno sì che esistano territori enormi di fatto riassumibili in un unico distretto almeno per chi può o vuole fruirne, ovvero quasi chiunque. È una città vera, anche senza arrivare a certe esagerazioni da geografo, o da sociologo del territorio che non sa bene cosa sia davvero il territorio, ad esempio quando se ne tracciano i confini calcolando il pendolarismo dei discotecari del sabato sera. Evitando certi salti retorici, forse più degni del cripto-fascio-futurista Marinetti che del geografo della megalopoli Gottmann, si possono comunque ipotizzare bacini ragionevoli, di un’ora in macchina più o meno dal centro principale. Posti dove magari il sindaco e qualche altro, in buona o più interessata fede, potranno anche continuare a raccontare storie di specificità, localismo, radici nel territorio e nella storia, ma dove basta guardarsi attorno per capire che qualcosa non quadra, a parte certi cortili storici.
La campagna, invece di essere modernizzata dai pianificatori regionali fascisti di Vincenzo Civico (o dagli elettrificatori coatti leninisti, se è per questo) ha finito per urbanizzarsi virtualmente, ma in fondo come sarebbe piaciuto proprio al Duce. Ovvero senza quei caratteri di cultura urbana che il regime temeva come la peste nera. Spesso sono urbane le densità del cemento, fra villette di dimensioni spropositate dentro a giardini privati ancora più spropositati, per non parlare dei capannoni, la cui quantità complessiva in termini di metri cubi sembra aumentare tanto più rapidamente quanto crolla il valore economico e occupazionale delle attività che ospitano (o dovrebbero ospitare, visto che molti sono vuoti). Sono urbani i consumi e i redditi, certi stili di vita superficiali, appunto legati a mode più che a culture, ma resta spesso assai arretrato tutto il resto, a partire dall’identità locale, quando il “locale” è pura invenzione, come certe fiere tradizionali del salamino made in China inventate a tavolino dalla pro loco il mese prima. Eppure il reddito di gran parte degli abitanti di queste sedicenti campagne lo si guadagna in città, luogo dove si abita di fatto, salvo crollare a letto la sera, riverniciare la recinzione al sabato, avventurarsi tre volte l’anno al massimo, non in macchina, fino ai margini dei campi in fondo alla lottizzazione. Tutto il resto sono centri commerciali nello svincolo, frusciare di stampanti e fotocopiatrici, il parcheggio del multisala, la pausa pranzo nell’area pedonalizzata dove suona il saxofonista.
Eppure pare impossibile smettere di pensare a quei posti come se ancora fossero immersi in arcani ritmi tradizionali, in improbabili solidi valori locali, trasmessi forse come certe malattie sociali attraverso l’umidità dei muri? Evidentemente, è una spiegazione come un’altra, i giornalisti si adeguano, danno al popolo ciò che il popolo vuole. O magari la pensano proprio così.
Un caso abbastanza recente è quello tragico della ragazzina uccisa sulla strada di casa dalla palestra nel pedemonte bergamasco. Non sto parlando a vanvera: in quella zona ci ho portato i giornalisti di Report per costruire immagini di sprawl urbano, di distesa cemento asfalto senza fine, quindi la campagna da quelle parti la vede solo qualcuno che ha fumato qualcosa di veramente forte. Eppure i giornali, tutti, raccontando le varie fasi della vicenda, intervistando gli abitanti, descrivendo gli ambienti, davano l’idea di una specie di idillio rurale sconvolto dall’intruso (presumibilmente immigrato, si diceva come al solito in un primo tempo). Bastava guardarsi attorno togliendosi le fette di salame ideologiche, e vedere che di sbagliato lì c’era l’immagine di sé stessi della collettività.
Ve lo ricordate il mitico “rapporto col territorio”? La povera ragazzina era stata mollata in un prato: in una zona rurale tutti si muovono benissimo e a proprio agio fra campi filari, strade poderali e cascine, là dove non ci sono ostacoli insormontabili, geografici o di proprietà. L’hanno trovata dopo mesi, a dimostrazione che lì il “territorio” è ormai solo una cosa sui mappali del catasto, in attesa di urbanizzazione, anni luce ad esempio dalle magnifiche immagini di quei passaggi di Don Camillo e Peppone dove si vigila sugli argini contro la piena del Po, o si fanno i picchetti contro i crumiri per il raccolto. Il territorio urbanizzato, in assenza di una corrispondente cultura urbana dello spazio pubblico rivendicato e governato, è invece sconosciuta terra di nessuno, o meglio di qualcuno che attende il momento buono per cavarci il massimo profitto. Tutto il peggio della campagna in termini culturali, tutto il peggio della città in termini di qualità fisica dell’insediamento. Eppure, a qualche centinaio di metri di distanza, uno dei temi ricorrenti di un pur virtuoso piano regolatore a zero consumo di suolo è stato quello dell’identità locale: preservarla dalla confusione metropolitana. Forse un buon cavallo di battaglia elettorale per un sindaco: ma per il resto del mondo, e più in generale per la chiarezza molto probabilmente no.
Adesso arriva un’altra notizia, forse un po’ meglio da questo punto di vista: un comune sugli argini del Po, forse salvato a suo tempo dalle piene da versioni locali di Peppone e Don Camillo, offre come servizio opzionale a tutti i cittadini l’allarme antifurto. La notizia in sé può suscitare reazioni contrastanti. La prima è pensare alla solita paranoia per la sicurezza in questi posti che, da quando esiste l’automobile, sono facilmente raggiungibili da chiunque, ma chissà perché pare sviluppino una specie di spropositata sindrome da invasione. La seconda, dopo aver capito esattamente di cosa si tratta (appunto, un servizio proposto da un sindaco che per caso è pure assicuratore), è il sollievo nello scoprire che almeno la gated community elettronica padana per adesso ce la siamo scampata.
Ma ci sono poi i passaggi di atmosfera, quelli che descrivono il posto, e qui l’immaginario lisergico che tanto piaceva al Duce ci ricasca: il borgo sugli argini, le giornate sonnacchiose scandite dalle stagioni, eccetera. Eppure chi scrive dovrebbe saperlo dov’è quel posto. Oppure si è limitato a guardare frettolosamente un motore di ricerca e a telefonare in Comune?
Anche così, quando si osserva che la popolazione cresce, che i redditi dei nuovi residenti sono alti, non viene da chiedersi come se lo guadagnino questo reddito, gli abitanti? Nei solchi bagnati di servo sudor magari? La piana di Mantova è nota da tempo per la sua agricoltura ricca, già dai tempi in cui una contadina si sgravò sulla via dei campi scodellando sul prato il futuro poeta Virgilio. Ma appunto è passato un pochino di tempo, e si presume che i neoimmigrati benestanti non si facciano i calli con la zappa, se non per hobby: ergo possiamo ben considerare questo posto una specie di suburbio un po’ più decentrato della media. Dentro quelle case si guardano schermi ultrapiatti, si naviga su internet, e tutti i giorni ci si sposta di decine di chilometri dentro e verso l’area urbana propriamente detta: perché pervicacemente ignorarlo? Quando ad esempio i cronisti americani ci raccontano dei quartieri lasciati a metà e desertificati dalla crisi dei mutui subprime l’eventuale vecchio casale che dava il nome alla località resta al massimo sullo sfondo. Perché da noi, anche quando attorno a una chiesa e due cortili tradizionali si addensa una distesa di edifici e lottizzazioni moderne grande venti volte tanto, l’atmosfera pare pietrificata a un immoto Angelus di Millet?
Non è una domanda retorica, e magari rispondere aiuterebbe a capire qualcosa. O a modo suo aveva ragione il Duce, a prenderci per i fondelli prima di tanti altri?
Fabrizio Bottini
da Mall