giovedì 26 maggio 2011

Acqua: il privato non garantisce la razionalizzazione dei costi per la collettività

In vista del referendum sull’acqua, ripropongo in estrema sintesi e a livello divulgativo (eliminando cioè le noiosità didattiche) un convengo dell’ Università di Milano-Bicocca dal titolo “L’ Acqua: un bene pubblico. Aspetti economici, sociali ed istituzionali”. Pertanto, le opinioni o i punti di vista espressi sono quelli dei relatori, riassunti e riproposti; queste righe non vogliono essere un articolo di fondo ma qualcosa di meno arbitrario. I lavori si sono svolti per relatore, non per argomento e allo stesso modo si è ritenuto di riportarli.

Anzitutto per parlare di “bene pubblico” si deve definire cosa significa pubblico: dopo anni di studi grossa parte della comunità economica tende a escludere che esistano caratteristiche intrinseche di un bene che lo qualifichino come tale. L’essenza pubblica di un bene è data dalla percezione che la comunità ne ha, da come le persone lo vivono. L’acqua fin dai tempi più antichi era considerata di pertinenza del proprietario del terreno dal quale era prelevata, i laghi e i fiumi erano divisi come i boschi e i campi. Il proprietario (posto che il concetto odierno di proprietà nasce solo con la Rivoluzione francese) faceva pagare un balzello a chi ne usufruiva e talvolta ne regolamentava arbitrariamente l’accesso. Con i Comuni si decise di renderla disponibile a tutti, ebbe una qualifica sociale diversa, divenne assimilabile più ad una strada che a una proprietà privata. Con l’affermarsi della borghesia, si pensò di costruire infrastrutture idriche per il trasporto diretto di acqua nelle case, e questo fu fatto con investimenti privati: fu a scopo di lucro, per dotare una emergente classe dirigente di un bene di lusso, che si portò l’acqua direttamente nelle case delle grandi città. Diventò un bene pubblico quando ci si accorse che serviva ad aumentare il livello di igiene e quindi era utile a debellare le epidemie urbane. Questo processo fu sostenuto da un “patto sociale”, soprattutto nel nostro paese: con la diffusione delle grandi fabbriche era necessario portare forza lavoro laddove esse sorgevano; l’urbanizzazione era aiutata anche dalla qualità della vita. A differenza della Gran Bretagna, dove il trasporto delle classi lavoratrici nei quartieri di nuova costruzione era addirittura forzato, in Italia fu più volontario in quanto oltre a trovare lavoro, nelle città si trovavano condizioni migliori. Facendo un notevole salto temporale, con la legge Galli del 1994 si concretizzò l’inizio di una inversione di tendenza nella mentalità giuridica e la fiscalità generale smise di farsi carico dei costi del sistema dell’acqua e si introdusse la tariffa. Il nocciolo del referendum è individuabile non nella privatizzazione dell’acqua quale risorsa, ma nella gestione anche privata del trasporto idrico. In questo contesto assume un rilievo determinante non la proprietà della risorsa, ma il contratto di gestione di essa, soprattutto se il gestore è un operatore privato. E’ nel contratto di gestione che ogni interesse collettivo può essere fatto valere, e che ogni forma di abuso può essere preventivamente regolata. Questo vale però in linea teorica, in quanto sarebbe difficilissimo nel concreto controbilanciare il potere di un gestore privato con una autorità di garanzia. L’esempio più palese è quello dell’illuminazione pubblica. In estrema sintesi, ad oggi la tecnologia LED consente notevoli risparmi, ma al tempo in cui fu stipulato il contratto col gestore questo progresso non era prevedibile; ad oggi i comuni che volessero passare alla tecnologia LED potrebbero, ricoprendo però i costi dei lampioni tradizionali. Essendo una operazione molto costosa, può difficilmente essere fatta.
L’aspetto finanziario della questione sta nella modalità di erogazione del servizio: richiede l’utilizzo di una rete. E’ quindi un monopolio naturale: non deriva da una concessione, ma dalla sua stessa essenza. E’ una sola impresa a poter gestire il servizio, sarebbe antieconomico avere due acquedotti. Se a servirsi dell’unico esistente è un privato, tenderà per sua natura al profitto come primo obiettivo. Il problema è stato storicamente affrontato con l’intervento pubblico sostitutivo dei privati: in Italia i c.d. “socialisti municipalisti” nei primi del ‘900, durante il II Governo Giolitti, diedero vita alle municipalizzate. Col passare del tempo il modello entrò in crisi, si costituirono quindi le s.p.a. a capitale pubblico e si cercò di introdurre l’idea che ci potesse essere concorrenza. Non concorrenza nell’erogazione della prestazione, ma concorrenza per il diritto di utilizzo della rete. Tuttavia, nel contratto di concessione, perché è il contratto a delineare i termini della questione, a definire il campo di gioco, nel contratto appunto è impossibile prevedere tutte le variabili che nel passare del tempo ci si potrebbe trovare ad affrontare. A grandi linee, secondo il teorema di Sappington e Stigliz (sul quale non ci soffermiamo per ovvie ragioni, ndr) attraverso un meccanismo d’asta, si può avere una privatizzazione del servizio pubblico con una gestione efficiente (dove per efficiente si intendo con la migliore allocazione possibile delle risorse). Per poter essere dimostrato, questo teorema deve soddisfare delle condizioni che, se calata nella realtà idrica, non sono soddisfatte. Ad esempio, ci deve essere parità di informazioni tra le imprese partecipanti all’asta; ci deve essere neutralità verso il rischio; deve esserci un alto numero di partecipanti almeno a livello potenziale; il soggetto pubblico stipulante deve avere interesse per il solo scopo finale, non curandosi dei metodi utilizzati. Inoltre nel settore idrico è impossibile calcolare il capitale investito e il tasso di remunerazione: l’investimento è di lungo periodo e non è possibile aspettare un notevole numero di anni prima di rientrare dell’investimento. Questo dato è supportato da esempi teorici e pratici, soprattutto statunitensi e canadesi.
Nel confronto tra modelli, il privato in un settore come quello della gestione delle acque non garantirebbe una razionalizzazione dei costi per la collettività e, per di più, non può garantire l’investimento a sé stesso. 

Edoardo Zerbi

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